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Il riscatto nella gestione separata INPS

Anche gli iscritti alla Gestione Separata INPS possono richiedere il riscatto del periodo legale di laurea. E’ tuttavia necessario verificare se tali periodi  di studio si collocano prima o dopo il 31 marzo 1996, data di introduzione dell’obbligo contributivo presso la gestione separata stessa. Questo perché non possono essere accreditati a una gestione previdenziale contributi che si riferiscono a un periodo in cui la gestione non esisteva, questo anche se la laurea formalmente sia stata conseguita successivamente.

Sulla questione si è espressa la Corte di Cassazione – sezione del lavoro – con la sentenza n. 16828 del 2019 riguardante la richiesta di riscatto del periodo del corso legale degli studi da parte di un iscritto alla Gestione Separata con riferimento ad anni accademici compresi tra il 1988 e il 1992, ribaltando la decisione del giudice di merito che aveva accolto la domanda.

La motivazione deriva dalla constatazione che, se pure l’interessato avesse potuto lavorare in quel periodo, anziché dedicarsi allo studio, non avrebbe comunque potuto avvalersi dell’accredito di quel periodo, ai fini del futuro trattamento pensionistico, non essendo prevista la relativa copertura previdenziale.

In generale, il riscatto della laurea nella Gestione Separata INPS può essere più conveniente del riscatto nella gestione dei lavoratori dipendenti, in quanto l’onere viene calcolato sul valore medio mensile dei compensi assoggettati a contribuzione obbligatoria negli ultimi 12 mesi antecedenti la richiesta (o periodo inferiore) a cui si applica l’aliquota di computo in vigore negli anni oggetto del riscatto.

Ad esempio, il riscatto di una laurea breve triennale (periodo 2000 – 2003) nella Gestione Separata per un titolare di partiva IVA iscritto alla Gestione Separata con un compenso negli ultimi 12 mesi di € 30.000,00, ha oggi un costo complessivo pari a € 22.500,00, importo dato dall’aliquota del 25% sul compenso per il numero di anni da riscattare.

Per il resto, la normativa applicabile è la stessa per ogni singola gestione previdenziale. Quindi anche nella Gestione Separata è possibile valorizzare ai fini pensionistici il periodo di studio universitario, a condizione che si sia conseguita la laurea e per il numero massimo degli anni del corso legale di laurea. Inoltre, il periodo relativo al corso di laurea non deve essere coperto da altra tipologia di contribuzione. Non è quindi possibile riscattare gli anni relativi ai corsi di studio non conclusi o già coperti da altra tipologia di contribuzione.

Infine, si possono riscattare, oltre ai periodi utili per i diplomi universitari, anche i periodi utili per i corsi di specializzazione, i dottorati di ricerca e vari altri diplomi indicati dalla legge, con vari limiti e modalità.

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Tutto quello che c’è da sapere sull’invalidità civile

Molto spesso di tende a confondere quello che è l’assegno di invalidità o la pensione di inabilità (prestazioni previdenziali) con l’assegno o pensione di invalidità civile (prestazioni assistenziali). Vediamo quindi di fare chiarezza su questo argomento.

 

Allo scopo di tutelare il diritto al mantenimento e all’assistenza sociale dei cittadini residenti in Italia resi parzialmente o completamente inabili al lavoro per minorazioni di tipo psico-fisico, lo Stato italiano mette a disposizione dei cittadini in difficoltà una serie di prestazioni economiche (pensioni, assegni o indennità) e non economiche (agevolazioni fiscali, assistenza sanitaria ed esenzione dal ticket, possibilità di fruizione per i familiari dei permessi dell’ex legge 104/1992, collocamento obbligatorio a lavoro). 

Possono in particolar modo usufruirne, secondo le peculiarità specifiche della propria “categoria” di appartenenza: 

 

  • mutilati e invalidi civili che abbiano subito una riduzione permanente della capacità lavorativa pari almeno adunata terzo (33%)
  • ciechi civili
  • sordi

Ma quali sono e come vengono stabilite le prestazioni a cui si ha diritto?

 

Il grado di invalidità riconosciuto è determinante per stabilire a quali prestazioni il richiedente ha diritto. le prestazioni di tipo economico, infatti, vengono riconosciute solo nei casi di invalidità più gravi (74% – 100%) e a seguito della verifica reddituale del richiedente.

Più precisamente, percentuali di invalidità e benefici ottenibili sono così correlati:

 

  • fino al 33%, nessun riconoscimento;
  • dal 33 al 73%, assistenza sanitaria e agevolazioni fiscali; 
  • dal 46%, iscrizione nelle liste speciali dei Centri per l’Impiego per l’assunzione agevolata; 
  • dal 66% ,esenzione dal ticket sanitario; 
  • dal 74% al 100%,prestazioni economiche. 

Le prestazioni economiche

 

Per gli invalidi civili:
  • pensione di inabilità (invalidi totali);
  • indennità di frequenza (minori invalidi);
  • assegno mensile (invalidi parziali);
  • indennità di accompagnamento.
Per i ciechi civili: 
  • pensione ai ciechi assoluti;
  • pensione ai ciechi parziali;
  • indennità speciale;
  • indennità di accompagnamento.
Per i sordi (sordomuti): 
  • pensione; 
  • indennità di comunicazione.

Le prestazioni economiche per gli invalidi civili

 

Nel caso di invalidità totale (100%) e permanente, l’INPS riconosce la cosiddetta pensione di inabilità per invalidi civili (da non confondersi con la pensione di inabilità previdenziale), erogata su domanda agli invalidi totali di età compresa tra i 18 anni e i 67 anni (termine correlato all’età pensionabile e pertanto soggetto a variazioni in base all’aspettativa di vita), che si trovino in stato di bisogno economico. Per il 2022, l’importo è di 291,69 euro mensili erogati per 13 mensilità; al compimento dell’età anagrafica per il diritto all’assegno sociale, l’importo è adeguato a quest’ultimo.

Il limite massimo annuo di reddito personale per avere diritto alla prestazione è di 17.050,42 euro per il 2022.

 

Attenzione! Per i casi di inabilità totale tali da rendere impossibile perfino il deambulare senza un accompagnatore o il compimento dei normali atti di vita quotidiana, può essere prevista l’indennità di accompagnamento, comunque compatibile e cumulabile con la pensione di inabilità, con le pensioni e le indennità di accompagnamento per i ciechi totali o parziali .

 

Agli invalidi parziali (riduzione delle capacità lavorativa compresa tra il 74% e il 99%) che soddisfino i requisiti sanitari e socio-economici previsti è invece corrisposta un’altra prestazione economica a carattere assistenziale, l’assegno mensile di assistenza per invalidità civile. 

Anche in questo caso i limiti anagrafici sono fissati tra i 18 anni e i 67 anni (soglia soggetta a revisione periodica) e l’importo è pari a 525,17 per l’invalidità totale e di 946,80 per i ciechi civili.

 

Attenzione! L’assegno mensile non è compatibile con le pensioni dirette di invalidità: spetta tuttavia al beneficiario la scelta della rendita a lui più favorevole. 

 

Come calcolare il 50% riscattabile sotto forma di capitale in caso di richiesta di anticipazioni

 

In questo articolo si vuol fare chiarezza su un aspetto che spesso genera confusione e viene mal interpretato, come si calcola il 50% del riscatto sotto forma di capitale del montante finale accumulato in una forma di previdenza complementare.

 

Come sappiamo, questa possibilità è offerta a tutti gli aderenti, senza alcun tipo di vincolo. In parole semplici, se alla scadenza il montante accumulato è pari a 100.000,00 euro l’aderente può richiedere il riscatto sotto forma di capitale sino ad un massimo di 50.000,00 euro, il restante deve essere trasformato in rendita.

Già, ma se durante la fase di adesione fossero state richieste delle anticipazioni come si determina il 50%?

 

Analizziamo un caso pratico 

 

Silvana ha aderito a un fondo pensione per 20 anni versando un importo annuale di 5.000,00 euro per ottimizzare il beneficio fiscale. A scadenza la prestazione maturata è pari a 120.000,00 euro. Nella fase di adesione Silvana ha chiesto un’anticipazione per 20.000,00 euro, a quanto ammonta l’importo richiedibile sotto forma di capitale? L’anticipazione come viene considerata?

 

Diciamo subito che l’importo dell’anticipazione deve essere scomputato, ma da quale somma? Dal montante individuale o dal 50% di detto importo? In sostanza, il 50% deve essere calcolato sui 100.000,00 euro (120.000,00 meno 20.000,00) oppure su 60.000,00 euro (120.000,00 x 50%)?

 

lo scomputo delle anticipazioni eventualmente già erogate deve essere effettuato dopo che sia stato determinato l’importo massimo da commutare in capitale.

In questo caso quindi Silvana potrà richiedere il riscatto sotto forma di capitale per un importo massimo di:

 

120.000,00 x 50% = 60.000,00

60.000,00 meno 20.000,00 = 40.000,00 importo massimo erogabile

 

Se la sottrazione dovesse avvenire direttamente dal montante, l’importo sarebbe superiore, infatti:

 

120.000,00 meno 20.000,00 = 100.000,00

100.000,00 x 50% = 50.000,00 in luogo dei 40.000,00 

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Regime retributivo e contributivo: due sistemi diversamente insostenibili

Secondo l’opinione comune il sistema pensionistico contributivo, introdotto nel 1995 dalla riforma Dini, è più sostenibile rispetto a quello retributivo.

Nulla da eccepire in merito, a maggior ragione se il sistema retributivo è stato eccessivamente generoso con i tassi di sostituzione come è avvenuto in Italia. Al di là del regime di calcolo utilizzato, un sistema pensionistico a ripartizione è destinato ad andare in crisi se diminuisce il numero di contribuenti atti e nello stesso tempo aumenta quello dei pensionati per l’allungamento della speranza di vita media. Questo è quello che sta accadendo con l’avvicinarsi di “tempi grami” per il futuro pensionistico delle giovani generazioni.

E’ assolutamente superfluo promuovere la previdenza complementare che, al contrario della previdenza pubblica è a capitalizzazione: i contributi versato alimentano la posizione individuale del lavoratore dal cui montante, alla maturazione dei requisiti pensionistici, dipende la prestazione da liquidare.

Quando si sente parlare che nel regime di calcolo contributivo l’importo dell’assegno dipenderà dai contributi versati si sente dire solo una mezza e pericolosa verità, perché i contributi versati vengono sempre immediatamente utilizzati per pagare le prestazioni dei pensionati. Anche nel regime contributivo si tratta sempre, quindi, di un atto di fiducia nel fatto che in futuro ci saranno abbastanza contributi per pagare la pensione maturata.

Probabilmente dovranno intervenire nuove modifiche che ridurranno ancor di più i tassi di sostituzione, di qui la necessità di sostenere la previdenza complementare. C’è però un problema, che le disponibilità finanziarie degli individui non sono infinite. In molti casi la contribuzione versata ad un fondo pensione non può essere di importo sufficiente a colmare il GAP previdenziale, ma questo non viene detto apertamente.

In sostanza si applaude al sistema contributivo, seppur sempre a ripartizione, pur sapendo che resta sempre insostenibile a lungo termine.

Per non mettere mano ai “diritti acquisiti”, i lavoratori versano oggi contributi per mantenere pensioni di persone che non hanno adeguatamente contribuito.

Ma ipotizzare di “toccare” quelle pensioni è politicamente un suicidio, quindi si preferisce scaricare l’onere sui contribuenti di domani che oggi non votano o se votano sono tenuti all’oscuro di quanto si prospetta per il loro futuro.

In definitiva, il sistema a ripartizione è finanziariamente insostenibile, quello a capitalizzazione è politicamente insostenibile. Non è difficile comprendere perchè si continui a puntare sul primo, invitando i giovani a farsi una pensione di scorta ……. quelli che possono.

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La previdenza dei liberi professionisti senza cassa

Non tutti coloro che esercitano un’attività professionale devono iscriversi presso un ordine: vi sono numerose professioni che non prevedono quest’obbligo.
I professionisti non iscritti agli ordini sono però anche liberi professionisti senza cassa, in quanto privi di una gestione previdenziale di categoria.

I liberi professionisti non iscritti presso ordini sono comunque obbligati al versamento della contribuzione previdenziale sulla base del reddito derivante dall’esercizio dell’attività di lavoro autonomo ed all’iscrizione presso la Gestione Separata INPS.

la contribuzione

Presso la gestione separata non si è obbligati a versare un contributo minimo come succede per i lavoratori autonomi (artigiani e commercianti), ma si paga in base al reddito.

L’aliquota contributiva è pari al 25,72% per la generalità dei professionisti, mentre è pari al 24% per i professionisti pensionati o iscritti anche presso altre gestioni di previdenza obbligatoria.

Pur non applicandosi un minimale, presso la Gestione Separata esiste un minimale di reddito valido solo ai fini dell’accredito dei contributi per il diritto a pensione: questo minimale, nel 2022, è pari a 16.243,00 euro.

In parole semplici, se il professionista non raggiunge un reddito almeno pari a 16.243,00 euro nell’arco del 2022, non gli è accreditato l’intero anno per il diritto al trattamento pensionistico, ma gli accrediti sono conteggiati in base al reddito effettivo ed ai relativi contributi versati.

esempio

A un professionista che nel 2021 ha dichiarato un reddito di 12.000,00 euro ed ha quindi versato contributi per  3.086,40 euro gli saranno accreditati solo nove mesi di contribuzione utile al diritto per la pensione

le prestazioni

le prestazioni erogate dalla Gestione Separata sono le stesse di quelle erogate dalle altre gestioni INPS

  • pensione di vecchiaia
  • pensione anticipata
  • pensione di invalidità
  • pensione di inabilità
  • pensione ai superstiti indiretta e reversibile

l’importo della pensione

l’importo della pensione è determinato in esclusivo regime di calcolo contributivo.

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Vendere: una questione di fiducia

Ci sono due cose che non devono mancare per vivere sereni: la salute e la tranquillità economica. Quando una delle due viene a mancare iniziano a sorgere i problemi e si va alla ricerca di una soluzione.

Se non stiamo bene andiamo da un medico che già conosciamo o ne cerchiamo uno  “di fiducia”, una persona di cui abbiamo sentito parlare bene ma nessun medico viene a cercarci per offrirci il suo servizio.

Quando invece si tratta di capire come ben gestire il proprio risparmio piuttosto che garantirsi una vecchiaia serena in età pensionabile sembra che tutti siano dei grandi esperti che possono aiutarci, ognuno con la propria soluzione vincente, costruita ad hoc anche se spesso basata su un budget da raggiungere o dal guadagno generato.

Mentre per curarsi è scontata la ricerca di un medico, per capire come meglio gestire il proprio risparmio, tutelare se stessi e i propri cari o ancora pianificare un piano previdenziale non sappiamo a chi rivolgerci: Banche, Agenti di assicurazione, Consulenti Finanziari, Poste si dichiarano pronti a risolvere le nostre esigenze. Una volta si andava in Banca per chiedere un mutuo o depositare il risparmio sul conto corrente, ci si rivolgeva ad un’agenzia di assicurazioni per fare una polizza e in Posta per spedire una raccomandata. Oggi le cose sono cambiate, tutti sono esperti di tutto, l’importante è una cosa sola: vendere, vendere, vendere. 

Proviamo allora a metterci nei panni di un cliente che sia interessato, per esempio, a capire la sua situazione previdenziale, come starà in età pensionabile ed eventualmente cosa poter fare in merito. Sicuramente sarà bombardato da proposte di “consulenza” quando andrà in Banca per fare un versamento oppure a pagare la polizza RC auto dal suo agente o in Posta per spedire una raccomandata.

Cosa può pensare? Ma soprattutto, a quali conclusioni può arrivare? Per 30 anni la sua Banca si occupava di finanza, il suo agente di assicurazioni di polizze e la Posta di pacchi e spedizioni, oggi la Banca vende anche polizze, il suo agente anche prodotti finanziari e la Posta fa lo stesso.

Sicuramente si sentirà confuso e perplesso e se poi pensasse ai tanti risparmi traditi negli anni passati il risultato non poterebbe essere che un aumento della sfiducia generale che porta ad un solo risultato: non agire, non fare nulla, non fidarsi di nessuno. 

Quando ci si ammala cerchiamo di curarci, sapendo bene che abbiamo bisogno di un medico ma quando abbiamo bisogno di trovare una soluzione idonea per la gestione del  risparmio, la sicurezza nostra e dei nostri cari piuttosto che per il futuro pensionistico non sappiamo a chi rivolgerci, chi ascoltare, a chi dare fiducia. 

Questo è il risultato di “tutti fanno tutto”, conseguenza? La mancanza di quella credibilità che genera fiducia. Si dice spesso che questo è un mercato di offerta, ma non è così, questo è un mercato di domanda che non trova risposte adeguate, un mercato certamente stanco dei soliti imbonitori e gente che s’improvvisa, un mercato che ha tanta fame di consulenza e professionalità.

Che fare allora? C’è una sola strada da percorrere per chi vuol fare la differenza: specializzarsi e proporsi al cliente come esperto, come un professionista preparato, in grado di analizzare le esigenze e proporre le migliori soluzioni.

Per chi si specializza il futuro è garantito, per chi pretende di sapere (e vendere) tutto non c’è futuro!

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Riscatto agevolato: una scelta da ponderare

La formula light, agevolata, del riscatto degli anni di studi universitari fa gola a tutti. D’altronde, il vantaggio economico rispetto alla procedura ordinaria è evidente. Nell’ipotesi di un lavoratore dipendente con uno stipendio lordo annuo di 30.000 euro, per fare un esempio, si pagherebbe circa il 50% in meno. Ma si tratterebbe comunque di un investimento importante, anche se rateizzato su 120 mesi: parliamo di una spesa complessiva di 21.440 euro per una laurea quadriennale e di 26.845 per una di cinque anni. Proprio per questo la scelta va ponderata bene. E se da un lato è vero che non c’è una regola generica e oggettiva da seguire, dall’altro lato è pur vero che sono diversi gli elementi che possono essere presi in considerazione per valutare la convenienza o meno del riscatto della laurea.

Le condizioni

Uno dei fattori principali da analizzare è sicuramente il fattore tempo, ovvero la reale possibilità di poter anticipare l’età pensionabile, che è tra gli obiettivi primari del riscatto. A oggi, i requisiti per accedere alla pensione sono due: avere 67 anni di età (vecchiaia), oppure aver maturato contributi per 41 anni e 10 mesi se donne o 42 anni e 10 mesi se uomini (pensione anticipata). Solo per coloro che ricadono esclusivamente nel sistema contributivo, dal 1996, se verrà maturato un assegno previdenziale mensile pari o superiore a 2,8 volte quello dell’assegno sociale di 468,11 euro, il requisito anagrafico scende a 64 anni di età con 20 di contribuzione.

Il paradosso dei 30 anni

Questo vuol dire che, pur riscattando la laurea (in forma light o ordinaria), non tutti hanno la possibilità di anticipare l’età del pensionamento. Chi ha iniziato a lavorare a 30 anni, per fare un esempio, raggiungerà il requisito di pensione anticipata (cioè i 42 anni e 10 mesi di contribuzione) a quasi 73 anni e riscattando quattro anni di corso di laurea potrebbe anticipare il pensionamento a quasi 69 anni, ben oltre quindi il requisito dei 67 anni (o 64), da incrementare con le speranze di vita. In questo caso, quindi, come unico vantaggio si otterrebbe un aumento dell’assegno pensionistico, che sarà parametrato all’importo versato (quindi più basso con il riscatto in forma light).

Il caso dei 23 anni

Invece, il discorso cambia per chi ha iniziato a lavorare a 23 anni. In questo caso, il primo requisito utile per andare in pensione scatterebbe a quasi 66 anni (sempre con i 42 anni e 10 mesi di contribuzione) e quindi riscattando gli anni di laurea riuscirebbe ad abbandonare il lavoro già a 62 anni. Insomma, chi ha iniziato a lavorare presto, dopo essersi laureato in corso potrebbe avere convenienza a riscattare gli anni di studi. Senza dimenticare che in alcuni casi il riscatto può servire ad entrare in Quota 102 o in opzione donna, come accade ad alcune lavoratrici 60enni della tabella accanto: con tre o cinque anni riscattati potrebbero complessivamente anticipare la pensione di quasi sette.

Il danno contributivo

Prima di scegliere, però, per chi ha una storia lavorativa antecedente al 1996 ci sarebbe un altro elemento da prendere in considerazione, ovvero il cosiddetto danno contributivo. Riscattando la laurea in forma light infatti, si dovrà rinunciare in modo irreversibile al sistema misto (calcolo della pensione con il metodo retributivo per gli anni precedenti al ‘96 e con il metodo contributivo per gli anni successivi) a favore di quello contributivo.

Il massimale di stipendio

Questo vuol dire che «chi negli anni antecedenti al 1996 aveva uno stipendio più basso rispetto a quello degli ultimi 5-10 anni della vita lavorativa ne uscirà penalizzato. Ma il passaggio da misto a contributivo andrebbe a penalizzare anche la contribuzione futura dei redditi più alti, in quanto il ricalcolo dei contributi sarà soggetto all’applicazione del massimale annuo contributivo, pari 105.014,00 euro lordi annui (i contribuiti sono pari al 33% dello stipendio lordo, di cui due terzi pagati dal datore di lavoro, ndr). Quindi chi avrà uno stipendio superiore al massimale di 105.014,00 euro sarà penalizzato in termini di contribuiti versati».

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L’opzione per il regime di calcolo contributivo

L’art. 1 della legge 335/1995 (Riforma Dini) consente ai lavoratori iscritti presso le gestioni INPS in possesso di anzianità contributiva al 31 dicembre 1995 (che si trovano quindi in un regime di calcolo misto) di optare per la trasformazione e la liquidazione della pensione secondo le regole del regime contributivo.

Condizioni

Per l’esercizio della facoltà di opzione devono essere rispettate due condizioni:

  1. non aver maturato 18 anni di contribuzione al 31 dicembre 1995;
  2. possedere almeno 15 anni di anzianità contributiva di cui almeno 5 nel sistema contributivo (successivi al 31 dicembre 1995).

I vantaggi

L’esercizio dell’opzione al sistema di calcolo contributivo consente di guadagnare una prestazione pensionistica alle medesime regole dei lavoratori assicurati successivamente al 31 dicembre 1995. In alcuni casi può anche produrre un beneficio sull’importo dell’assegno. In particolare ciò può valere per quei lavoratori che possono vantare forti retribuzioni all’inizio del periodo lavorativo e che man mano sono diminuite con il passare del tempo. In questo caso l’applicazione del regime di calcolo contributivo potrebbe dar luogo ad una prestazione di importo superiore a quella risultante con il sistema misto.

Con l’opzione al regime di calcolo contributivo si possono inoltre attivare alcuni istituti presenti nel sistema contributivo per il raggiungimento dell’età pensionabile. Si pensi, tanto per fare un esempio, alla possibilità per le lavoratrici madri di godere di un anticipo di quattro mesi per ogni figlio sino ad un massimo di un anno.

Dal 2012 l’opzione comporta l’applicazione esclusivamente del metodo di calcolo contributivo e non più anche quella dei requisiti per il diritto previsti nel regime contributivo. Pertanto, ad esempio, non è possibile tramite l’opzione guadagnare l’uscita a 64 anni con 20 di anzianità contributiva ed un assegno pari a 2,8 volte il valore dell’assegno sociale come previsto invece per i lavoratori iscritti a forme di previdenza obbligatoria dopo il 31 dicembre 1995.

Il massimale contributivo

Un ultima considerazione riguarda, infine, il massimale contributivo per i lavoratori dipendenti, infatti per i lavoratori assunti prima del 1° gennaio 1995 non è previsto alcun massimale di retribuzione su cui determinare la contribuzione; con l’opzione al sistema di calcolo contributivo, invece la contribuzione è soggetta al massimale che, per il 2022, è pari a 104.015,00 euro.

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Riscatto della laurea e fondo pensione

Il riscatto della laurea è un’opzione di previdenza pensionistica con la quale è possibile valorizzare il percorso di studio ed integrarlo nella pensione pubblica, a condizione che il titolo di studio sia stato effettivamente conseguito.

Si possono riscattare i diplomi di laurea, di specializzazione, i dottorati di ricerca, i diplomi accademici e i titoli equiparati. Non si possono però conteggiare i periodi fuori corso o quelli già coperti da altre forme di contribuzione obbligatoria. In pratica, il riscatto della laurea permette di equiparare almeno in parte lo studente al lavoratore per gli anni in cui ha seguito il corso di studi.

Con il decreto n. 4/2019 è stata introdotta la possibilità di richiedere in via agevolata il riscatto della laurea: la misura è nata per favorire chi deve riscattare periodi di studio che ricadono con il sistema pensionistico retributivo, cioè prima del 1996, che presentavano dei costi molto elevati con il riscatto ordinario.

Con il riscatto della laurea agevolato è possibile pagare una quota fissa per ogni anno da riscattare, che in base alla normativa vigente è pari a 5.360,19 euro annui (pagabile anche in 10 anni e in 120 rate mensili), corrispondente all’aliquota contributiva del dipendente (33%) da applicare al, minimale per artigiani e commercianti (16.243,00 per il 2022). 

Ma il riscatto agevolato è una medaglia che ha due facce: una con aspetti positivi ed una che potrebbe avere conseguenze negative. Andiamo ad analizzarle.

Gli aspetti positivi e conseguenze negative

Gli aspetti positivi sono sicuramente il costo, poi la possibilità di pagare  sino a 120 rate mensili senza aggravio di alcun interesse, la deduzione dell’onere e, in qualche caso, l’anticipo dell’età pensionabile.

U aspetto negativo è rappresentato dal ricalcolo contributivo della pensione, compresa la quota retributiva nel frattempo maturata (anni ante 1996). Questo ha sicuramente una conseguenza negativa sull’importo della pensione finale con una riduzione che può arrivare anche sino al 30% in funzione del numero di anni maturati nel sistema retributivo.

Riscatto o previdenza integrativa?

Una delle domande che spesso ci si pone è se conviene usufruire del riscatto della laurea piuttosto che puntare su altri sistemi di previdenza integrativa.

Uno dei fattori da considerare è la possibilità di anticipare l’età pensionabile. Ma non tutti hanno la possibilità di raggiungere questo obiettivo. In alcuni casi infatti, soprattutto per chi ha iniziato a lavorare intorno ai 30 anni, i requisiti pensionistici si raggiungerebbero prima con la pensione di vecchiaia (67 o 64 anni, da adeguare con le speranze di vita media) che con il riscatto della laurea.

In certi casi potrebbe essere più conveniente un fondo di previdenza complementare, i cui contributi sono deducibili sino a 5.164,87 euro l’anno.

Nel medio e lungo periodo, i rendimenti del fondo sono superiori a quelli dei contributi versati alle gestioni INPS, con una tassazione vantaggiosa (imposta sostitutiva dal 15% al 9%) rispetto a quella della pensione (tassazione ordinaria IRPEF).

Grazie alla RITA, inoltre, il Fondo pensione offre la possibilità di anticipare l’ingresso alla pensione sino a 5 o 10 anni.

In conclusione, la scelta tra le diverse opzioni di riscatto oppure di adesione ad una forma di previdenza complementare dipende dalla propria situazione personale: la cosa importante è valutare con attenzione costi e benefici, pianificando le rispettive necessità a medio e lungo termine, soprattutto in uno scenario di incertezza ed emergenza sanitaria come quello che stiamo vivendo.

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Pensione di vecchiaia, vecchiaia anticipata, anzianità e anticipata: quali differenze

Quando si parla di pensione si fa, in genere, riferimento alla pensione di vecchiaia, prestazione che viene erogata al raggiungimento di un’età anagrafica fissata per legge e alla maturazione dell’anzianità contributiva richiesta, requisiti che si differenziano in base alla gestione previdenziale di iscrizione (INPS, Casse professionali).

Tuttavia, oltre alla pensione di vecchiaia, è possibile lasciare il mondo del lavoro con altre due tipologie di prestazioni: la pensione di anzianità e la pensione anticipata.

Vediamo di fare chiarezza analizzando quello che succede nelle gestioni INPS

La pensione di vecchiaia

Caratteristica della pensione di vecchiaia è aver maturato un requisito contributivo ed uno anagrafico che, come detto, sono differenti in funzione della gestione di iscrizione. Per le gestioni INPS, ad esempio, il requisito anagrafico è attualmente di 67 anni mentre quello contributivo minimo di 20 anni.

Da tener presente che in qualche gestione, per soddisfare il mantenimento dell’equilibrio finanziario, il sistema prevede alcuni elementi di stabilizzazione, introdotti anche per permettergli di reggere alle trasformazioni demografiche in atto e, in particolare, al progressivo invecchiamento della popolazione: a tal fine, l’età pensionabile è quindi soggetta a degli adeguamenti periodici, in funzione della cosiddetta “speranza di vita”. Se la speranza di vita aumenta, aumenta anche l’età anagrafica richiesta.

Per quanto riguarda invece i contributi considerati, vale invece la pena di precisare che, ai fini della maturazione del requisito, vale la contribuzione a qualsiasi titolo versata o accreditata in favore dell’assicurato: si considerano cioè egualmente “validi” contributi da lavoro, da riscatto, figurativi e versamenti volontari.

Nelle gestioni INPS il doppio requisito, 67 anni d’età e 20 anni di contribuzione, è valido in linea di massima, ma sono ovviamente previste alcune eccezioni, tanto che si può dire che, nel complesso, l’età di accesso alla pensione di vecchiaia varia per il 2022 dai 67 ai 71 anni.

In particolare:

Per i lavoratori che non soddisfano il requisito contributivo ventennale, è possibile ottenere la pensione di vecchiaia – spesso definita anche “pensione di vecchiaia contributiva” – a 71 anni (requisito a propria volta soggetto ad adeguamento demografico) a fronte del versamento di 5 anni di contributi, nei quali non sono però compresi in questo caso di contributi figurativi

Per i cosiddetti “contributivi puri”, lavoratori il cui primo versamento contributivo decorra dal 1° gennaio 1996, il doppio requisito anagrafico e contributivo non è in realtà sufficiente, ma ne è previsto un terzo, vale a dire aver maturato una pensione di importo superiore a 1,5 volte l’assegno sociale (468,11 euro x 1,5 = 702,16 euro per il 2022).

Quando il requisito non sia soddisfatto, non è quindi possibile ottenere la pensione: è possibile prescindere da tale requisito solo al raggiungimento dei 71 anni di età (“pensione di vecchiaia contributiva”), quando sarà cioè possibile ottenere l’accesso al proprio assegno pensionistico a prescindere dall’importo maturato

Per quanti avevano maturato al 31 dicembre 1992 almeno 15 anni di anzianità contributiva, possono bastare appunto anche solo 15 anni di contribuzione, a condizione che venga comunque soddisfatto il requisito anagrafico. 

Per chi accede alla pensione di vecchiaia tramite totalizzazione, vale a dire “totalizzando” i contributi versati nel corso della propria vita lavorativa i contributi versati a più gestioni (Casse di Previdenza dei liberi professionisti comprese), il requisito anagrafico si riduce a 66 anni di età. Va però ricordato, che tra il diritto alla pensione e l’erogazione del primo assegno intercorrere comunque una finestra di ben 18 mesi.

La pensione di anzianità

La pensione di anzianità non esiste più: pensata in origine per permettere al lavoratore che avesse raggiunto una determinata anzianità contributiva di andare in pensione a prescindere dall’età, è stata infatti dapprima modificata nel 2004 mediante l’introduzione di requisiti aggiuntivi rispetto a quello contributivo e quindi del tutto “pensionata” dalla riforma Monti-Fornero che l’ha nella pratica sostituita con la pensione anticipata, che consente comunque al lavoratore di andare in pensione prima della soglia anagrafica prevista dalla pensione di vecchiaia a fronte di un certo numero di contributi.

Mediante appositi provvedimenti legislativi sono stati comunque “salvaguardati” alcuni assicurati che, ritenuti nella posizione di dover comunque essere tutelati dal sistema previdenziale, hanno potuto in via eccezionale conservare l’accesso alla pensione con le regole ante Fornero.

La pensione anticipata

Introdotta dalla riforma Monti-Fornero, si può – semplificando – definire come quella prestazione previdenziale cui è possibile accedere non raggiungendo una certa età, bensì perfezionando un requisito di natura contributiva. Questo significa che diventa appunto possibile andare in pensione prima dei 67 anni richiesti dalla pensione di vecchiaia (da qui, il nome di “anticipata”), a condizione di aver accumulato un certo numero di contributi.

In particolare, sino al 31 dicembre 2026 spetta:

ai lavoratori uomini (dipendenti o autonomi) con almeno 42 anni e 10 mesi di anzianità contributiva, a prescindere dall’età anagrafica;

alle lavoratrici donne, con almeno 41 anni e 10 mesi di anzianità contributiva, a prescindere dall’età anagrafica.

A differenza di quanto non accada con la pensione di vecchiaia, persiste dunque in questo caso una differenza nei requisiti tra i due sessi.

Così come originariamente previsto dalla riforma Monti-Fornero, anche il requisito contributivo necessario a ottenere la pensiona anticipata avrebbe dovuto essere periodicamente adeguato all’aspettativa di vita. A seguito dalle novità nel sistema pensionistico introdotte dalla Legge di Bilancio per il 2019 e dalle successive disposizioni attuative, gli adeguamenti sono infatti stati sospesi fino al 31 dicembre 2026: ciò significa che, nel corso del 2019, non è entrato in vigore l’adeguamento di 5 mesi originariamente previsto, tanto che i requisiti per la pensione anticipata si sono appunto mantenuti identici – e lo stesso sarà per il 2021 – a quelli già previsti per il 2018.

Un beneficio il cui rovescio della medaglia, almeno per quanto riguarda l’effettiva ricezione dell’assegno pensionistico, è la (re)introduzione del cosiddetto meccanismo delle finestre mobili. Se fino allo scorso dicembre la pensione anticipata aveva decorso dal mese successivo al perfezionamento del requisito contributivo richiesto, a partire dal 2019 è stata infatti reintrodotta una finestra trimestrale, il che vuole dire che si viene a creare un gap di 3 mesi tra il momento in cui è possibile inoltrare la domanda per la pensione e quello in cui l’assegno è effettivamente erogato. Nel frattempo, comunque, il lavoratore potrà continuare a esercitare la propria attività e continuare a contribuire fino all’esaurimento della finestra così da accedere direttamente alla pensione una volta cessato il rapporto di lavoro dipendente (requisito quest’ultimo necessario per l’accesso alla pensione stessa).

La pensione anticipata contributiva

Un’ulteriore particolarità riguarda poi ancora una volta i “contributivi puri”, per i quali è possibile un’ulteriore opzione, rappresentata dalla pensione anticipata contributiva. Oltre a poter ottenere la pensione al perfezionamento dell’anzianità contributiva dei 42 anni (41 per le donne) e 10 mesi richiesti, i lavoratori che hanno aperto la propria posizione contributiva dopo il 31 dicembre 1995 hanno la possibilità di ottenere il trattamento anticipato al compimento dei 64 anni di età, requisito quest’ultimo sempre soggetto ad adeguamento alla speranza di vita.

Premesso che il trattamento decorre in questo caso senza che sia prevista alcuna finestra, due le ulteriori condizioni che è tuttavia necessario soddisfare:

  1. almeno 20 anni di contributi effettivi accreditati 
  2. aver maturato un assegno pensionistico di importo mensile pari o superiore a 2,8 volte quello dell’assegno sociale (468,11 euro x 2,8 = 1.310,71 euro per il 2022).
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Il cantiere pensioni non si chiude più

Sulla flessibilità in uscita dal mercato del lavoro ci sarà ancora da aspettare, forse anche patire.
D’ altronde, la storia insegna, sono anni ormai che i governi di turno si cimentano in soluzioni in grado di garantire l’ addio anticipato al lavoro.
Prima Quota 100, targata Lega, poi Quota 102 e infine anche Quota 41.
Tutto utile ma tutto molto poco strutturale.
Ogni anno, a prescindere dall’ inquilino di Palazzo Chigi, porta in dote meccanismi di flessibilità, con i quali scongiurare il ritorno alla più discussa delle leggi sulla previdenza degli ultimi decenni, la Fornero.
E c’ è chi comincia a non crederci più a una vera e possibilmente verticale soluzione in grado di garantire la flessibilità per i prossimi anni, magari senza doversi mettere in concomitanza di ogni manovra, a caccia di miliardi.
Per esempio il presidente dell’ Inps, Pasquale Tridico, teorico della prima ora di quel reddito di cittadinanza che Matteo Renzi vuole provare a spazzare via, a mezzo raccolta firme.
Intervenendo a una tavola rotonda alla Sapienza, in occasione dei 35 anni dalla scomparsa di Federico Caffè, illustre economista sparito nel nulla una mattina del lontano 1987, Tridico ha ammesso quella che è sembrata ai più quasi una resa.
«Sulla flessibilità del sistema pensionistico, ne parliamo da troppo tempo e probabilmente nemmeno questa legislatura riuscirà a chiudere questo cantiere: almeno non mi sembra che questo capitolo sia in procinto di essere chiuso».
Non è un De profundis, ma poco ci manca.
Come a dire, inutile farsi illusioni, se flessibilità sarà, allora sarà grazie a soluzioni temporanee e a tratti raffazzonate, non certo in grado di allontanare una volta per tutti lo spettro della Fornero.
E pensare che, proprio sulle pensioni il tempo stringe.
A settembre dovrà essere infatti definita la nuova legge di Bilancio che verosimilmente dovrà portare in dote quei meccanismi in grado di aggirare un’ altra scadenza, quella di dicembre 2022, quando, scadrà Quota 102 (64 anni d’ età e 38 di contributi), con il ragionevole rischio di tornare ai temuti 67 anni della Legge Fornero.
Per questo nei prossimi mesi il tema previdenziale tornerà giocoforza al centro del dibattito.
E, ironia della sorte, quale è la proposta sul tavolo che potrebbe allettare di più il governo di Mario Draghi? Proprio quella del professore di Roma Tre salito ai vertici dell’ Inps, ovvero la cosiddetta «doppia uscita»: tra i 63-64 anni con quanto si è cumulato grazie ai contributi versati lasciando il resto, la parte retributiva, al raggiungimento del 67esimo anno di età.
Un’ ipotesi in grado «di poter restituire una certa flessibilità ai lavoratori che potrebbero andare in pensione a 63-64 anni senza perdere nulla nell’ immediato e riottenendo nel lungo periodo anche la parte retributiva» ha spiegato Tridico.
Flessibilità, al prossimo giro.

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